Le esposizioni universali sono luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce.
Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo
L’inverno sta arrivando
Motto della Casa Stark nella serie TV Game of Thrones, apparso come graffito a Gezi Park durante la rivolta del 2013.
Sull’Expo 2015 di Milano, a circa due settimane dalla cerimonia per la sua inaugurazione, sono già state dette molte cose. Dal terrorismo mediatico sulle infiltrazioni dei black bloc nelle manifestazioni di contestazione all’evento, alle inchieste sugli sprechi di fondi pubblici e sugli scandali relativi alla gestione Expo.
Quello che a noi sembra il vero problema dell’Expo, però, non è lo «spreco dei soldi pubblici» o il «non serve a nulla»; non è la «corruzione» o il «tutto già visto», insomma, quel genere di critica contro le Esposizioni universali che si ripete senza alcuna novità dalla fine dell’800. La critica populista o benecomunista alle opere del capitale è come sempre impotente nel suo moralismo piagnucoloso e, per di più, del tutto prevista e assunta dalle stesse Esposizioni lungo tutta la loro storia. Non dimentichiamo che le Esposizioni sono state concepite per il popolo, i suoi primi entusiasti sostenitori furono dei sansimoniani, dei socialisti dediti all’elevazione spirituale dei lavoratori. L’Esposizione è, per sua natura, progressista. Ogni volta, dal concepimento del modello “Esposizione universale” ad oggi, è la totalità del mondo che deve essere esposta, quindi tesi e antitesi vanno incorporate e portate a sintesi.
La questione non è nemmeno quella di metterne in evidenza la falsità mondana come conferma dell’inautenticità di “Expo e del suo mondo”.
Al contrario, quello che ci sembra più significativo far emergere, è la verità che Expo incarna: la verità di questo mondo. A questa ne andrebbe contrapposta un’altra, una verità che invece di criticare si sappia esporre essa stessa in quanto mondo, e facendolo destituisca la pretesa totalizzante dell’Esposizione e della sua critica.
Non ci sono due mondi che si affrontano, c’è un solo mondo vissuto differentemente. Quello del capitale si vive come univoco, unilineare, omogeneo, vuoto; quello dei rivoluzionari è un mondo fatto da una pluralità di mondi, in cui le linee si moltiplicano, si incontrano e si scontrano in una pienezza traboccante.
Le Esposizioni universali hanno almeno questo di genuino: espongono il funzionamento del mondo-merce, il credo della sua religione e anche la sua tendenza profetica. Esse catturano un insieme di desideri e di paure proprie della nostra epoca e ne fanno una sintesi, generalmente espressa attraverso un oggetto o una produzione particolare – prima fu la grande industria, poi furono le ferrovie, un’altra volta la telefonia, etc. – che viene restituita al mondo in quanto fantasmagoria. É così che Marx e poi Benjamin definivano l’atmosfera dell’Esposizione, cioè un luogo in cui compaiono delle cose il cui valore d’uso è sospeso e occupato totalmente da quello di scambio il quale, a sua volta, viene trasfigurato in un’atmosfera da sogno attraverso cui la popolazione si distrae, da sé e dagli altri, godendo della propria estraneazione. Ecco perché non ci si deve scandalizzare per il fatto che migliaia di giovani vogliono lavorare gratis nell’Esposizione: è l’unica esperienza estatica che al momento gli è dato di vivere.
Le cose esposte, in quanto feticci, possono essere solo ammirate, mai toccate, tanto meno usate. Ammirare il mondo in quanto cosa astratta, merce cioè, e perdersi in essa: ecco l’esperienza metafisica che l’Expo promette al prezzo di una modesta cena in trattoria.
Così l’insieme di desideri e paure, trasformati in un dispositivo fantasmagorico, che l’Expo milanese del 2015 rovescia sinteticamente nel mondo, è abbastanza facile da comprendere. La natura, il cibo, la fatica dello sviluppo, la casa, l’essere in salute, in una parola: l’esperienza dell’abitare nell’epoca dell’Antropocene. Questa è la verità di Expo. Ma queste sono anche le verità e i desideri che dobbiamo liberare dal suo dispositivo se vogliamo dargli la forma di una vita.
L’Antropocene è la definizione che gli scienziati danno della nuova epoca geologica iniziata nel XVIII secolo, al momento cioè della prima industrializzazione e dell’affermazione del capitalismo. A partire da quel secolo gli umani diventano essi stessi degli “agenti geologici”, al pari dei vulcani con la loro lava, o dei fiumi con i loro sedimenti, avendo però un impatto stratigrafico molto più potente della forza erosiva degli oceani o delle eruzioni vulcaniche. La cosa più interessante di questa definizione è che essa ci dice che non c’è nulla di naturale nella catastrofe attuale. È il genere di vita umana che si è affermata col capitalismo ad aver determinato il disastro in cui viviamo. Nel momento in cui al centro dell’epoca vi è l’Uomo – il Soggetto – tutto il resto – il non-umano – diviene l’Oggetto di cui disporre liberamente. La libertà dei moderni richiede la distruzione di tutto quello che non è né moderno né umano e, va da sé, di tutto quello che, pur se umano, non è ordinabile e controllabile all’interno di quella libertà. L’aria irrespirabile delle metropoli, il riscaldamento climatico, la proletarizzazione galoppante, la crisi materiale ed esistenziale di intere nazioni, la scomparsa ogni anno di antiche lingue e modi di vivere: l’Antropocene nomina, non la catastrofe che verrà, ma quella che è già qui e ci attraversa quotidianamente. Il malessere che viviamo, il dolore o la malinconia che sentiamo crescere, fanno interamente parte di quest’epoca, sono i sintomi di questa geologia malata: il soggetto dell’Antropocene è partecipe in quanto attore attivo e passivo della forza devastatrice di una civiltà che ha perso il suo mondo. Ma perdendo il mondo nella catastrofe perdiamo, pezzo per pezzo, anche la nostra soggettività. Un fatto che non è un male in sé, se sappiamo farne uso.
Il primo problema di fronte al quale si trova oggi un’Esposizione universale è quello di dover manipolare la percezione del tempo, e del futuro in particolare, in una maniera inedita. Se essa nacque e si è sviluppata a partire dalla certezza di un presente che progrediva trionfalmente verso il futuro, oggi è a tutti evidente che quel futuro non può più esistere proprio perché il presente è divenuto il regno dell’incertezza, della precarietà di ogni cosa, nel quale nessuno crede più nel progresso. Al contrario, nel presente si crede solo in un’oscura catastrofe a venire: winter is coming. E questo futuro di catastrofe non è altro che il passato dell’Uomo che si presenta oggi nella forma di una valanga di detriti che ci sommerge da ogni lato. Come dicevano degli amici pochi anni fa: «da qualunque lato lo si guardi il presente è senza uscita» – il che, a ben guardare, è un’altra opportunità.
E dunque, in un’epoca nella quale ogni fenomeno naturale è vissuto come catastrofico, in cui il cibo genuino è diventato un vero feticcio, per la quale lo sviluppo è solo una progressione verso l’Apocalisse, cosa c’è di più fantasmagorico della messa in scena della civiltà che muore, vista attraverso il “come sarebbe se”? Se la produzione fosse ecologica, se il cibo fosse bio, se il lavoro fosse un gioco, se la metropoli si facesse più smart e più green, se il passato non esistesse e il futuro fosse già qui…
Al tempo della celebre Esposizione parigina del 1889, per l’occasione, fu costruita la Torre Eiffel. Fu chiaro a tutti che la vera merce esposta era la città stessa. Oggi, non più la città, ma il mondo in quanto tale ha perso il suo valore d’uso smarrendosi nella forma merce. Sarà quindi il mondo, la sua esperienza, come ultimo feticcio, ad essere esposto nell’expo milanese.
Un filosofo pochi anni fa ha coniato un neologismo per descrivere il malessere comune ormai a tantissimi abitanti della Terra: solalgia. Mentre la nostalgia esprime un certo dolore o malinconia dell’essere lontani dalla propria casa, dal proprio paese o terra, la solalgia esprime il disagio di chi continua a vivere nello stesso luogo ma in condizioni ambientali sempre più desolate e desolanti. La gentrification, il cambiamento climatico, la distruzione della biodiversità e delle specie, l’urbanizzazione-colonizzazione, l’accellerazionismo tecnologico, la deforestazione, la polluzione nucleare sono solo alcune delle condizioni che portano un abitante o un’ intera comunità a soffrire di patologie psichiche legate a quella condizione, che un altro filosofo ha definito il vivere «senza mondo». Ma vivere senza mondo è ciò che ci è proposto da qualche secolo ormai ed è l’immagine perfetta del disastro, è la via maestra del nichilismo occidentale che ha trovato nella cibernetica la sua realizzazione integrale. Ormai sono gli algoritmi e non i fenomeni mondani, o le sensibilità e gli affetti a definire “che cos’è il mondo”.
La mission di Expo 2015 è dunque, assumere tutto questo e creare una fantasmagoria in cui il cittadino sia comunque portato a credere in un mondo ormai ridotto ad un ammasso di rovine, lasciando intravedere la possibilità di un giusto equilibrio tra natura e cultura, tra progresso e sostenibilità, che possa posporre l’inevitabile Apocalisse. Un mondo inusabile, certamente, ma del tutto vendibile o acquistabile.
La separazione tra l’Io e la Terra non solo viene confermata da strutture simboliche come il «bosco verticale» a Milano, il grattacielo ecologico e ipersecuritario, ma viene esaltata e portata a paradigma assoluto dell’esistenza. Non si tratta più di «difendere la società» ma di difendere un mondo da se stesso. Il primo gesto rivoluzionario allora non può che essere quello di tornare sulla Terra: percepire sensibilmente i luoghi, partire da dove si è e far fronte a quello che viviamo qui e ora. L’importante per noi è sempre e comunque elaborare il come si vive, non il cosa o il chi.
Per essere davvero convincente il dispositivo-Expo deve però riuscire a mobilitare i cittadini, così come lo ha fatto e continua a farlo il dispositivo-Crisi. Queste sono tecniche di governo prima di ogni altra cosa, tecnologie che producono soggettività e che rimodellano l’ambiente in favore di questa produzione.
Il problema che i governi hanno – e che costituisce l’occasione dei rivoluzionari – è che infatti non si tratta più di gestire una crisi di sovrapproduzione o ambientale ma di far fronte al fatto che ciò che è in crisi è la stessa civiltà che pretendono di governare. Ecco perché la crisi è diventata anch’essa una tecnica di governo e il motivo per cui il capitalismo cerca di immaginare non più lo sviluppo ma il suo contenimento, non più il radioso avvenire ma il management di un’Apocalisse che è già qui. Non dobbiamo però fare l’errore di scambiare il nuovo modello di governance con una crisi mortale del capitalismo. Viviamo infatti in un non-mondo che funziona ma che è divenuto per noi invivibile, un non-mondo che continua a produrre ma che per noi è inabitabile. La cattiva notizia è che la nostra soggettività non è esterna a tutto questo, anch’essa funziona e produce ma anch’essa è altrettanto invivibile e inabitabile. La necessità del governo è quindi produrre delle soggettività apocalittiche, ovvero dei soggetti e degli ambienti che si abituino a vivere nella catastrofe, rimandando indefinitamente la piena realizzazione della vita. Hanno un nome più moderno e smart anche per questa tecnologia di governo, la chiamano resilienza. Si tratta di governare la sopravvivenza, di gestire un eterno presente di crisi, di vivere un’apocalisse infinita e senza redenzione. Il capitalismo può vivere all’infinito questa non-vita, godere di questo inferno, se noi ci abituiamo ad esso.
Forse, come i rivoluzionari hanno già fatto molte altre volte nella storia, dovremmo liberare questo desiderio di finirla contenuto nell’Apocalisse e appunto esporlo: fine della normalità, inizio della vita redenta, entrambe nello stesso momento. Questo modo di vivere nell’Apocalisse richiede una diversa esperienza del tempo, innanzitutto quella di porre termine all’attesa infinita, che sia per la fine del mondo, la rivoluzione o l’invasione degli extraterrestri. Compiere la vera esperienza del tempo che viviamo implica naturalmente una trasformazione di noi stessi e del nostro modo di vivere, ciò che Foucault chiamava l’avere una “spiritualità politica”. Quello che si può opporre all’Esposizione universale, di fatto, è solamente l’esposizione della nostra forma-di-vita. È l’accumulazione di atti, di pratiche e di idee che trasforma sensibilmente il tempo della vita e il mondo in cui viviamo. All’astrattezza della merce feticcio possiamo opporre solamente la ricomposizione di una vita che finalmente abita un mondo.
È dunque questo il terreno della guerra in corso. Una guerra tra chi vuole continuare a posporre il momento in cui si rende sensibile la parola fine, il vero emblema di questa civiltà, a costo di rendere sempre più invivibile il mondo, e chi desidera una vita più piena e felice ma sa che per far questo deve costruire un mondo fuori e contro quella civiltà. Credere in questa possibilità significa abitare consapevolmente il deserto, prendere posizione al suo interno e, sul tappeto di rovine che lo costituisce, costruire autonomamente un mondo tra i mondi.
Non è una guerra normale, ce ne si rende facilmente conto: è una guerra metafisica poiché si svolge lungo il fronte della definizione della vita stessa e quindi del futuro.
Togliamoci dalla testa l’immagine del governo eco-fascista che reprime le nostre esistenze. È una fantasmagoria anch’essa. Il governo apocalittico per eccellenza è il governo democratico, il governo dell’informe e dell’attesa infinita. È lui l’agente primario della desertificazione, sulle sue macerie abita la nostra possibilità. Facciamone uso.