Fucina 62
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25/11 Presentazione con l’autore Gigi Roggero e discussione del libro Elogio della militanza
Categories: General

15042092_1400294940000402_8150184649882650232_oVENERDI 25 NOVEMBRE

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ore 19.30 Presentazione con l’autore Gigi Roggero e discussione del libro Elogio della militanza

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Pubblichiamo di seguito l’ introduzione uscita su Commonware scritta dall’ autore:

0. Il pensiero e la scrittura sono degli arnesi. Se dobbiamo scardinare una porta ci serve un piede di porco, se dobbiamo attaccare un ordine del discorso ci servono dei concetti. Non bisogna mitizzare il primo né feticizzare i secondi: il piede di porco senza concetti gira a vuoto, i concetti senza piede di porco sono disarmati. Ci sembra importante chiarirlo subito, a scanso di equivoci. Viviamo infatti in una fase, accentuata dalla crisi, in cui pratica e teoria rischiano sempre più di separarsi e autonomizzarsi. Con conseguenze disastrose, su entrambi i lati. Una pratica militante senza teoria militante ha il fiato corto e rischia l’autoreferenzialità. Una teoria militante senza pratica militante è buona per l’accademia, dunque buona a nulla.

Althusser tirò fuori questi due termini: pratica teorica e pratica politica. Invece di risolvere il problema, l’hanno reso cronico. Perché significavano l’autonomia della teoria da una parte, l’autonomia del politico dall’altra. La lotta di classe in filosofia non la si poteva fare se non portando la filosofia là dove la lotta di classe era, dalla scuola normale alle fabbriche, e poi alle fabbriche del sapere. A quel punto cessava di essere filosofia, ed è qui che l’intellettuale si ferma e si separa: perché deve cessare di essere intellettuale, rinunciando a status e reddito che ne derivano. La collocazione materiale spiega spesso molto di più dei labirinti filosofici.

Il militante politico, scriveva Tronti, ha come oggetto della propria analisi il capitalismo, cioè la realtà che deve combattere. Bisogna studiare ciò che si deve distruggere. Chi si innamora del proprio oggetto di analisi, per poter riprodurre i ruoli acquisiti nella società capitalistica, abbandona la militanza e passa al campo nemico. Non vale nemmeno la pena di tirare fuori il tradimento, è più semplicemente incapacità di rompere la separatezza della propria condizione. Al militante serve odio per produrre sapere. Tanto odio, studiare a fondo ciò che più si odia. La creatività militante è innanzitutto scienza della distruzione. Dunque, la pratica politica è pregna di teoria, oppure non è. Bisogna studiare per agire, bisogna agire per studiare. E fare le due cose insieme. Ora più che mai, questo è il compito politico.

Per iniziare un libro e prima di entrare nel merito dei contenuti dobbiamo allora, innanzitutto, dire almeno cosa non vogliamo e a chi ci rivolgiamo. Non vogliamo scrivere per tutti. Anzi, diffidiamo apertamente di coloro la cui scrittura e i cui pensieri sono apprezzati da tutti, perché significa che non dicono niente. Se per dire intendiamo uno strumento d’attacco e non un vezzo intellettuale. Chi scrive per tutti in fondo scrive solo per se stesso. Ci rivolgiamo ai militanti politici, in particolare a coloro che si muovono su quello che Alquati chiamava medio raggio. È quel livello intermedio tra l’alto e il basso, tra la teoria e la pratica, tra l’astrazione determinata del comando e la determinazione astratta della vita quotidiana. Sul medio raggio, il militante traduce la linea politica verso il basso e la corregge verso l’alto. Il medio raggio è il livello fondamentale dell’agire politico.

1. Qual è l’obiettivo di questo libro? Affrontare dei problemi, disporli sul tappeto, ripercorrerne la genealogia, tentare di metterli in fila, costruire un ordine, fare una gerarchia. A noi pare, in particolare, che ci sia un problema che contiene tutti gli altri: quello della composizione di classe. Non lo si può affrontare in quanto tale, bisogna procedere per scomposizione per poi poter ricomporre, spacchettare e rimontare in una direzione radicalmente differente. Se lo si affronta come tale oppure lo si scompone senza ricomporlo, infatti, si rischia di restare intrappolati nelle maglie dell’articolazione e divisione della forza lavoro così come è prodotta dal capitale. Una fotografia senza processo e senza possibilità di sovversione, sociologia debole. Se lo si aggira teoricamente, con un salto della volontà privo di basi materiali, quel problema si ripresenta di continuo, spingendo il discorso nell’idealismo e nell’autoreferenzialità. Una tendenza priva di realtà, filosofia impotente. In questo libro compiremo solo in parte questa operazione di scomposizione e ricomposizione, va al di là delle nostre possibilità e capacità. Cerchiamo però di costruire i presupposti per compiere collettivamente questa operazione, che è innanzitutto un piano collettivo di ricerca militante.

Per cominciare, dobbiamo chiarire il punto di partenza. La prendiamo da lontano per arrivare molto vicino: il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale resta per noi un passaggio irrisolto. Lo ha risolto il capitale, mettendo a valore lo spazio sociale e metropolitano, superando la forma-fabbrica e frammentando il proprio antagonista. Non lo abbiamo risolto noi, che nelle nuove coordinate spazio-temporali dei processi di accumulazione non siamo ancora riusciti a trovare gli equivalenti funzionali dello sciopero e del sabotaggio, cioè della capacità di far male al padrone e di incidere sui rapporti di produzione, di forza e di potere. A quel passaggio il capitale non ci è arrivato per una razionalità interna, ma perché vi è stato costretto dal livello raggiunto dalla lotta di classe. Se avessero potuto continuare a governare e accumulare come facevano prima, lo avrebbero fatto. Si resero ben presto conto che non era così. Nel fuoco delle lotte, davanti all’ingovernabilità delle fabbriche e delle metropoli, la Trilaterale lo disse chiaramente nel ’73: l’espansione dei conflitti, dei bisogni e dei processi di soggettivazione nati dentro e contro la fabbrica taylorista e la società fordista va bloccata, pena la capacità di poter conservare il timone del comando. Non bastava reprimere: il rapporto di capitale o si innovava, oppure si rompeva. È riuscito a innovarsi, noi non siamo riusciti a romperlo. È sull’innovazione che hanno vinto la battaglia.

Vi sono due recenti tesi su quel lungo passaggio, che arriva fino ai giorni nostri: arrivano da due figure comuni e diverse, ci sembrano in grado di illuminare bene il presente e la sua genealogia, offrendoci alcune delle questioni da affrontare e approfondire. La prima è di Tronti, più o meno suona così: per smontare la classe operaia hanno dovuto smontare il capitalismo industriale. L’altra è di Marazzi, che a quel passaggio si rivolge per comprendere la finanziarizzazione: dal momento in cui si è liberato dalla sostanza per distruggere la classe operaia, cioè della classe che gli si contrappone, il capitale non ha avuto più tregua. Il capitale fa dunque i conti con la sua «nemesi storica»: per distruggere una composizione di classe determinata, quella dell’operaio massa, ha distrutto anche la dinamica di sviluppo legata al rapporto sociale, ciò che gli permetteva di crescere nella conflittualità. «Di tutti gli strumenti di produzione, la più grande forza produttiva è la classe operaia stessa», scriveva Marx contro Proudhon nella Miseria della filosofia. Per attaccare l’autonomia operaia, dunque, il capitale si è a sua volta – parzialmente – autonomizzato, ma così facendo non riesce più a innescare nuovi cicli di sviluppo. Perché la classe operaia può essere autonoma, il capitale no: strutturalmente dipende dal proprio nemico. La crisi è esattamente questa nemesi storica.

Tutto bene, allora? Dobbiamo semplicemente aspettare che il capitale imploda nelle proprie contraddizioni? Neanche per sogno. La crisi non è un preludio al crollo, come dovremmo aver capito da tempo, almeno fin da quando le teorie crolliste degli anni Venti del secolo scorso portarono alquanto male. Se non c’è un soggetto collettivo in grado di romperlo, quel rapporto sociale non si romperà da solo. Il capitale può governare e riprodursi nella crisi a tempo indeterminato, se non incontra una forza sociale antagonista in grado di interrompere e distruggere quella riproduzione. Anzi, la crisi attuale assume nuove caratteristiche rispetto al passato: diventa forma permanente di accumulazione e comando politico. Sul breve periodo sembra modificarsi tutto di continuo, sul medio-lungo non si modifica nulla dell’elemento centrale: il comando, appunto.

Nell’autoreferenzialità del capitale, rischia di specchiarsi l’autoreferenzialità del discorso militante. Questo è buono per il nostro nemico, male per noi. Nella difficoltà di fondarsi sulla nuova sostanza di classe, il discorso militante fugge spesso nelle isole marginali dei propri simili alla ricerca di conferme delle proprie certezze. L’idea prende il posto della carne. La misura del discorso cessa così di essere la materialità dei processi di lotta, di organizzazione e dei rapporti di forza, per divenire la comunità militante. Alla sostanza della classe si sostituisce l’inconsistenza del discorso ideologico, in un’operazione di rappresentanza immaginaria dagli esiti disastrosi e spesso grotteschi.

Per schematizzare, abbiamo in questo contesto due tendenze prevalenti: una nostalgia per la sostanza e un’indifferenza alla sostanza. Per usare termini che renderemo più chiari nel corso della lettura, vi è da un lato una mitologica composizione di classe senza operaismo, dall’altro un mitologico operaismo senza composizione di classe. Gli uni fuggono con la fantasia in Cina o nei paesi emergenti, sognando di trovare là quello che qua non c’è più. Se ci andassero davvero, ne resterebbero profondamente delusi. Gli altri fuggono con la fantasia verso un futuro già immediatamente dato, senza rendersi conto che la tendenza è sempre una questione di lotte e rapporti di forza. Qual è la migliore tra le due opzioni? Sono entrambe peggiori. L’una rafforza l’altra, in una sterile diatriba che non riguarda altri al di fuori delle ristrette cerchie di chi le porta avanti. Serve quindi un’operazione preliminare per sgomberare il campo e disporre i problemi su un terreno liberato da lenti che annebbiano la vista e da schemi che non servono più a leggere.

2. Diciamolo così, in modo netto: il cosiddetto post-operaismo è finito. La definizione è nata nelle università anglosassoni e americane, come tentativo di catturare la potenza dell’operaismo, depoliticizzarlo e astrarlo dal conflitto e dalla composizione di classe. Per renderlo, cioè, buono per l’accademia e l’economia politica del a conoscenza. Ora è diventato «Italian theory», per completare il percorso di recinzione e messa a valore di un pensiero appositamente svuotato e disarmato. Non è questo che qui ci interessa e di cui ci occupiamo. Assumiamo invece con la definizione traballante di post-operaismo quello spazio comune ancorché differenziato nato sul finire degli anni Ottanta del Novecento per analizzare le forme della produzione e del lavoro sorte dalle ceneri del passaggio prima menzionato, cercando di rovesciare le annichilenti immagini della fine della storia e del pensiero unico. L’obiettivo polemico era e resta corretto, lo sviluppo pratico non sempre all’altezza. Nascevano così le teorizzazioni sul cosiddetto «postfordismo», e poi via via i tentativi di individuare nuovi soggetti del conflitto che incorporavano in sé saperi e cooperazione sociale. Alcuni di questi tentativi erano problematici fin dall’inizio, altri sono stati estremamente produttivi e lo possono ancora essere, a patto che vengano ripensati dentro le mutazioni intervenute nella crisi e l’esaurimento di un modello complessivo.

Ecco, il punto è questo: non ricominciare da capo in questo caso significa davvero tornare indietro. Significa, in altri termini, correre il rischio di ossificare le categorie, di trasfigurarle in dogmi, di far diventare l’operaismo ciò che non è mai stato: una scuola e non un movimento di pensiero. Significa, in subordine, dare spazio a fastidiose operazioni di rancoroso attacco a un intero impianto teorico rivoluzionario. Si tratta di operazioni irrilevanti, certo, ma che rischiano di spostare il dibattito sulla difesa dei concetti anziché sulla loro utilità nelle lotte. Rischiano dunque di trascinare tutto nella marginalità politica.

Dopo la fine del post-operaismo, cosa resta? Restano gli operaisti, e anche i cosiddetti post-operaisti. Restano tanti militanti per cui quel metodo rivoluzionario è un punto di vista dentro e contro la realtà, una santa barbara per farla saltare in aria. Dovremmo oggi provare a compiere quella mossa originaria che fu propria dell’operaismo rispetto a Marx: il machiavelliano ritorno ai princìpi, cioè a Marx, contro il marxismo. Ora il compito è ritornare all’operaismo, non certo contro ma sicuramente in modo critico rispetto a ciò che del post-operaismo non funziona più, oppure non ha mai funzionato.

Chi ha timore o gioisce per la liquidazione di un patrimonio teorico, probabilmente ha sbagliato strada, sicuramente ha sbagliato libro. Ci sembra che a contribuire nel liquidare quel patrimonio siano coloro che si crogiolano con categorie che non servono più alle lotte, anche se – o proprio perché – servono a partecipare a convegni internazionali. A noi al contrario interessa l’uso dell’eredità, e non le liti sul testamento. Allora, per usare quella straordinaria eredità la dobbiamo passare al filo tagliente della critica, buttare ciò che non serve, ripensare in avanti ciò che gira a vuoto. Non farlo è il vero modo di tradire quel patrimonio.

3. Riepiloghiamo. L’operaismo come pratica teorica rivoluzionaria storicamente determinata si chiude consegnandoci un problema: il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale. L’analisi sul «postfordismo» in parte lo chiarisce e in parte lo rimuove, nella misura in cui legge la composizione tecnica come composizione politica, ovvero distogliendo lo sguardo dalla formazione capitalistica della soggettività e dal comando sulle trasformazioni del lavoro. Lì ci rimane il problema, che è interamente politico. Perché quella dell’operaio sociale era una figura politica, mentre è stata ridotta a figura tecnica. Del resto, dall’operaio sociale al lavoratore cognitivo il soggetto si incarna tecnicamente, si disincarna politicamente. Ripartire da questo problema non significa ritornare all’operaio massa, che non esiste più da nessuna parte, ma ricercare una nuova sostanza. Cos’è? Come si produce? Come si organizza? Per fare delle ipotesi su questi problemi, dobbiamo ripercorrere in modo genealogico il concetto di composizione di classe. Questa è la scommessa.

Attenzione, caso mai ce ne fosse bisogno, specifichiamo che quello in cui siamo immersi è un quadro tutt’altro che pacificato e risolto una volta per tutte a favore del nostro nemico: la società innovata del capitale è pregna dei segni di classe e di conflitti. Stanno lì, come eccedenze concrete o talora cellule dormienti, come possibilità e a sprazzi realtà di nuove lotte. Non è poco, diciamo contro chi vede il capitale come unico soggetto della storia. Non è sufficiente, diciamo contro chi del capitale ha dimenticato l’esistenza per immaginare un rapporto di produzione già libero.

4. Una breve avvertenza, infine, per il militante lettore. Questo libro non ha la pretesa, la capacità e soprattutto la volontà, di rendere conto di tutto ciò che è scritto sugli argomenti trattati. Operiamo delle scelte, procediamo per parzialità, avanziamo per salti e interruzioni. Così va la storia, così va la realtà. Sui temi trattati rimanderemo talvolta a nostre elaborazioni del passato, più lontano e più recente: non lo facciamo per il valore che hanno, ma per non ripetere eccessivamente, e soprattutto per dare a chi ne avesse voglia la possibilità di confrontare linee di continuità e necessarie discontinuità nella nostra ricerca militante. In diverse parti del testo sono riportati ampi stralci di brani presi dai pensatori militanti con cui ci confrontiamo. Da un lato, la scelta non intende esaurire in modo estensivo la discussione con tutti coloro che si sono espressi significativamente sui temi qui analizzati, ma agire in modo intensivo a partire da una selezione di punti di riferimento. Meglio un faticoso passetto verso l’alto che dieci comodi passi laterali. Dall’altro, i brani riportati in modo talora abbondante non vogliono concedere nulla al vizio accademico della citazione; al contrario cercano di offrire l’opportunità al lettore – innanzitutto il militante, appunto – di confrontarsi direttamente con le fonti e non affidarsi quindi esclusivamente all’analisi fatta dall’estensore di queste pagine, o quantomeno per approfondirla ulteriormente e dunque mantenere aperto il campo della ricerca. Ricerca dei concetti da usare come piedi di porco, e viceversa.

 

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