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La lotta per la casa nelle metropoli italiane: una conversazione sulle occupazioni delle case da Roma a Milano
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Il testo che rimettiamo in circolo pone alcune interessanti riflessioni sul concetto di Abitare. L’ articolo apparso ul blog greco http://prolenet.gr ha il pregio di mettere in comunicazione Realtà territoriali differenti come il Giambellino a Milano e il quartiere Tuscolano di Roma. Il punto di vista è marcatamente dentro il movimento e i compagni greci sicuramente hanno usato uno sguardo attento nell’ osservare con i propri occhi alcune realtà di lotta per la casa milanese e romana. Precisiamo che l’ esperienza delle rete antisfratto Roma est è un esperienza politica ormai conclusa, ma naturalmente i bisogni e i movimenti di lotta per la casa continuano sempre con grande determinazione!

Nell’ augurarvi buona lettura, ringraziamo F. per la traduzione dal greco.

La lotta per la casa nelle metropoli italiane: una conversazione sulle occupazioni delle case da Roma a Milano

Gli ultimi anni le lotte per la casa acquistano un carattere sempre più centrale per il movimento antagonista italiano. La crisi della riproduzione sociale della forza lavoro, come è chiaro dalla ristrutturazione capitalista e della politica dell’austerità del governo Renzi, ha sempre più chiare conseguenze nella quotidianità degli sfruttati. Le occupazioni delle case, un’azione radicale, con grande tradizione nella lotta di classe in Italia, sono organizzate sotto forma di una lotta di una società multietnica che da un lato cerca di coprire il bisogno pratico dell’alloggio, dall’altra di costruire relazioni sociali di solidarietà e di compartecipazione nei quartieri delle città italiane. Le forme e i contenuti della lotta, così come l’organizzazione della quotidianità a livello dei quartieri con epicentro la copertura dei bisogni, la difesa collettiva di fronte agli sgomberi, la partecipazione dei migranti e delle migranti e la resistenza ai progetti “real estate” (del mercato immobiliare) e alla “gentrificazione”, riescono e speriamo che siano fonte di ispirazione e riflessione per le nostre lotte qui ed ora.

L’ottobre passato ci siamo ritrovati in Italia con i compagni F. e A. e la compagna T. e abbiamo discusso delle lotte per la casa nelle città d’Italia, in particolare a Roma e Milano. La discussione è iniziata in uno degli appartamenti occupati del quartiere Tuscolano a Roma est, ed è continuata più tardi a distanza tramite mail. Le interviste le ha prese, tradotte e trasformate in testo, Agesilao Santander. Ringraziamo i membri dei ragazzi della galleria che hanno contribuito alla traduzione del documento dall’italiano.

La richiesta dell’abitazione e la crisi dello stato sociale
Milano è una città in cui il capitale finanziario specula sulla richiesta di alloggio, pertanto vengono costruite molte case nuove e altrettante rimangono vuote. Questo ha come conseguenza che gli affitti a Milano sono molto alti, poiché lo scopo è far aprire mutui alle persone o ancora più in generale far chiedere prestiti alle banche. D’altra parte, esiste una grande richiesta di abitazioni da parte di un eterogeneo spettro di persone (da studenti fuori sede, fino a famiglie di migranti). La costruzione di abitazioni da parte dello stato segue la stessa tendenza di quella del resto d’Italia con alcune particolarità negative. In Italia viene abbandonata periodicamente la costruzione di case popolari, e viene annientato lo stato di benessere collegato alla casa, che in passato rappresentava una parte importante dello stato sociale italiano, poiché era una sicurezza per una grande parte del proletariato.

A Roma la richiesta della casa è davvero complicata. La città ha una grande tradizione di occupazioni di case. Si tratta di una città che ha cominciato a svilupparsi dopo la seconda guerra mondiale, con la popolazione che raddoppia circa ogni dieci anni. Molta gente è venuta a vivere a Roma dalla provincia, da altre regioni d’Italia, e spesso è stato impossibile trovare una casa normale, perciò ha cominciato a vivere nelle baracche. Negli anni 60 e 70, le persone hanno iniziato ad andare via dalle baracche e ad occupare appartamenti in città. La città continua a crescere, poiché vengono costruiti nuovi quartieri, di solito senza spazi comuni, vicino a grandi centri commerciali, e la povera gente viene cacciata dai vecchi quartieri e mandata sempre più lontano dal centro.

È da vent’anni che a Milano la costruzione di case popolari è stata abbandonata con l’intenzione di privatizzare o svendere il patrimonio dello stato. Inoltre la società addetta alla gestione delle case popolari di Milano ha nel suo storico infinite storie di corruzione e di relazioni con gli interessi dei partiti politici locali (lega Nord) e la mafia. Tutto questo ha come conseguenza l’esistenza, solo nelle nostre città, di più di 23000 famiglie in lista d’attesa, mentre 10000 palazzine popolari restano vuote con un grande ma imprecisato numero di persone che non possono nemmeno avere accesso alla lista d’attesa e, soprattutto nei sobborghi, palazzine abbandonate che diventano deserte.

A Roma esistono molte abitazioni pubbliche che sono state costruite negli ultimi decenni, e sono divise in due categorie. La prima è la casa popolare classica. Se sei povero e hai bisogno di una casa, lo stato ti da casa. Un’altra forma di casa pubblica è l’edificio che appartiene a un organismo pubblico (come l’edificio dove stiamo in questo momento) il quale da l’appartamento per un affitto modico a persone che sono coinvolte e fanno parte di questo organismo. Ad esempio, l’organismo che possiede questo edificio difende gli interessi dei piccoli padroni, perciò se fossi un negoziante, potresti avere accesso ad un simile appartamento. Esiste gente nel palazzo che paga 220 euro di affitto, cioè quasi niente per questo quartiere. Esistono anche senzatetto in città, ed esistono anche alcuni posti per loro che di solito li gestisce la chiesa. Non so quanti siano esattamente ma sicuramente aumentano. Gli affitti sono molto alti. La città è perennemente in condizioni di crisi di alloggio con molti appartamenti tenuti sfitti per far salire i prezzi. Ad esempio, una casa con tre stanze fuori dal centro costa 1200 euro. O una stanza per studenti vicino all’università costa 400 euro.

La crisi ha influenzato molto negativamente tutta questa situazione. La ricerca di una casa pubblica è in molte situazioni diretta conseguenza del licenziamento dal lavoro. O del fatto che sono aumentati gli affitti a causa della “valorizzazione” della periferia. Quindi la gente va via dai quartieri “bene” e va più in periferia. Gli ultimi anni molti proprietari di case fanno più contratti regolari con gli affittuari, perciò il contratto d’affitto diventa più legale. Prima, molte case erano affittate in nero, senza contratto.

Con l’eccezione dei Rom, non si vede gente che vive per strada, ma molta gente a causa della crisi non può pagare l’affitto (nemmeno quello che si paga nelle case popolari) e perciò cerca di accomodare le cose come può. Ci sono molte situazioni di persone singole o di famiglie che vivono in cantine o dentro le auto.

In realtà non c’è una politica statale riguardo gli alloggi, non esiste nessuna politica statale per le case pubbliche perciò sono costruiti sempre meno edifici per chi ne ha bisogno, e le liste d’attesa sono lunghissime. Così, molta gente occupa appartamenti, risolvendo da sola il problema. Questa pratica è talmente diffusa a Roma, che fino ad ora è stata molto tollerata dalle istituzioni.

Questo cambia con la nuova legge del governo Renzi, chiamata “articolo 5”. Questa legge dice che se rimani in una casa occupata non puoi avere elettricità e riscaldamento, non puoi dichiarare la residenza, e inoltre non puoi avere accesso alla sanità pubblica, non puoi mandare i tuoi figli a scuola, e non puoi prendere il permesso di soggiorno se sei migrante.

La composizione sociale dei quartieri occupati
Il nostro quartiere qui a Roma, il Tuscolano, è uno dei più densamente abitati in Europa, se non il più densamente abitato in assoluto. Ci sono molte case occupate, e molta gente che ha occupato da anni e quindi ha anche legalmente il diritto di abitare l’appartamento. Le occupazioni non sono fatte da movimenti politici. Qui tutti occupano e si può dire che il movimento ha ricominciato a occupare negli ultimi anni. Probabilmente per superare il confine casa/centro sociale.

La composizione sociale del quartiere è molto complessa. Poveri da una parte, ricchi dall’altra, gente di sinistra, di destra, criminali, artisti, molti centri sociali, possiamo dire che il quartiere ha di tutto. La situazione nelle case occupate “non politiche” non è sempre chiara, a volte ci sono truffe, con gente che si fa pagare per aprire una casa in modo da “controllare” la zona. Non parliamo di una qualche grossa mafia, ma di piccole squadre criminali. Negli ultimi anni ci sono molti migranti nelle case occupate, dato che sono naturalmente la parte più povera della classe.

Per i motivi che abbiamo spiegato prima, l’occupazione delle case è una pratica molto diffusa a Milano (anche da un punto di vista storico, es. negli anni ‘70) e non riguarda soltanto lo “spazio” o gente che si organizza. In tutti i quartieri popolari di Milano c’è un gran numero di occupazioni. La composizione sociale consiste di una grande parte del proletariato che comprende famiglie di Italiani e altrettante di migranti, con queste ultime che sono diventate la maggioranza negli ultimi anni. I Rom, gli arabi e i latino-americani, sono quelli maggiormente presenti nelle occupazioni del quartiere di Giambellino.

Il bisogno di prendere una casa ha come conseguenza la comparsa in alcuni quartieri di una più o meno organizzata mafia che prende soldi per aprire appartamenti ai futuri occupanti o collega gli appartamenti occupati con il narcotraffico. Bisogna sottolineare che la mafia è molto forte poiché si interfaccia tanto con la società che gestisce le palazzine, quanto con la polizia. Per fortuna, nel quartiere dove abitiamo non c’è una mafia organizzata intorno alla richiesta della casa perché non ha fatto in tempo a costruire basi solide prima che noi crescessimo in numero, e in seguito l’esistenza del comitato e i legami di solidarietà che questo ha creato, hanno impedito il suo sviluppo.

L’organizzazione e la situazione interna della lotta per l’abitare
In questo momento abbiamo sei appartamenti occupati. Sono molto vicini tra loro, in particolare in una città come Roma, cioè si trovano al massimo a 20 minuti di distanza l’uno dall’altro. Insieme ad altre squadre del quartiere abbiamo creato una rete contro gli sfratti (rete antisfratto) e ci incontriamo con gente che ha bisogno di una casa alla nostra assemblea settimanale, che facciamo all’occupazione politica BAM ogni giovedì. La BAM ha una biblioteca, una cucina e un bar. A volte ci troviamo anche all’aperto nel quartiere, o al bar con altra gente, nei parchi, o nei negozi locali. Se qualcuno ha bisogno di una casa, cominciamo a cercare insieme per appartamenti vuoti. Chiariamo inoltre che le nostre case occupate non si trovano nello stesso quartiere della BAM, anche se sono vicine, ma con la rete antisfratto copriamo una zona più ampia che chiamiamo “Roma est”.

Le relazioni sociali nel quartiere sono annientate dal capitalismo, perciò prima di tutto cerchiamo di organizzare eventi dove la gente può incontrarsi e discutere. Vogliamo costruire relazioni di solidarietà fra la gente del quartiere, e per fare questo abbiamo capito che il miglior modo è di creare momenti “non-politici” come sistemare collettivamente il parco del quartiere, fare una festa per bambini, fare laboratori per acquisire competenze professionali, organizzare corsi di Italiano per stranieri. La gente è molto malfidata nei confronti della politica, e nei confronti degli anarchici…

L’obiettivo che ci siamo dati come comitato di quartiere e inoltre si sono dati tutti i compagni che si sono imbarcati in quest’avventura a Giambellino, è di costruire quartiere sempre più autonomi e aggressivi verso la metropoli, che costruiranno ogni giorno pratiche di solidarietà e auto-organizzazione verso una direzione rivoluzionaria. Naturalmente tutto questo è partito dalla richiesta della casa e abbiamo iniziato a organizzarci per opporci agli sgomberi e per aiutare la gente a occupare. Questo ha permesso la formazione di un forte nucleo di solidarietà nel quartiere e ha ampliato le prospettive oltre la richiesta della casa, portando alla richiesta di bisogno comuni e alla realizzazione di un modo differente di vivere. Dai primi pasti collettivi per rispondere al bisogno di comunicazione nei quartieri popolari siamo passati ad attività per i ragazzi dopo scuola, e all’idea di un pronto soccorso sociale per i proletari, soprattutto migranti,che non hanno accesso nemmeno alle liste di attesa per le visite sanitarie. Adesso abbiamo cominciato a far diventare realtà molto di più tutto questo e a trasformarlo sempre più in un impegno collettivo del comitato, e sempre meno in un dovere della militanza dei compagni politicizzati.

L’informazione e la propaganda riguardo la richiesta della casa da parte dell’insieme dell’organizzazione e la realizzazione di legami di solidarietà nel quartiere sono state lo sfondo di tutto questo lavoro e inoltre tutti i momenti di incontro tanto i più ufficiali, come le assemblee settimanali, quanto la presenza ai mercati e ai bar della zona, hanno permesso la realizzazione di tutto questo. È chiaro che solo con la presenza dei compagni che hanno scelto di abitare in case del quartiere, è stato possibile far partire tutta questa operazione collettiva. Potremmo dire molte cose sulle forme che tentiamo di applicare per organizzarci, ma è importante sottolineare che il fatto che si parta da specifiche condizioni di povertà e dai bisogni degli abitanti di un quartiere, non vuol dire che si deve cadere nella filantropia o nella costruzione di relazioni di dipendenza, ma che bisogna invece attivarsi a partire da una comprensione e una presa delle responsabilità, che nella sua logica comprende tutte le occupazioni.

Le minacce di sgombero e i confini della lotta
L’autunno scorso a Milano è stata condotta una grande operazione di sgomberi da parte delle istituzioni, la quale si è dimostrata completamente un insuccesso e, al contrario, ha creato focolai di protesta in varie zone dei sobborghi della città. In seguito, grazie alla dinamica che si è manifestata nei quartieri di Milano, c’è stata gente ad ogni sgombero, che cercava di rendere la vita difficile alla polizia. Dopo ogni sgombero c’era il tentativo di organizzare la ri-occupazione della casa per dare una risposta immediata sia dal punto di vista politico sia dalla prospettiva dei bisogni degli occupanti. Ovviamente, questo non è sempre possibile, poiché i meccanismi repressivi, tanto dal punto di vista della giustizia (multe, arresti), quanto da un punto di vista pratico con la comparsa dei numerosi poliziotti, potrebbero essere devastanti.

Il limite più chiaro della lotta, tanto a Roma quanto in generale, è il fatto che possiamo bloccare gli sgomberi, solo quando siamo più numerosi dei poliziotti. Se arrivano in due-tre pattuglie, li cacciamo. Ma se vengono 40- 50 poliziotti è impossibile bloccare lo sgombero. Perciò a volte quando sappiamo che non possiamo fermare uno sgombero, proviamo a creare problemi da un’altra parte. Un corteo nel quartiere, un blocco della strada, un’occupazione di un edificio pubblico. Dobbiamo essere creativi. E scegliamo sempre la tattica da utilizzare a seconda dello sgombero, perché ogni situazione è sempre diversa.

Le contraddizioni sono molte. Prima di tutto, incontriamo spesso molte persone disperate e a volte è difficile creare relazioni di solidarietà con loro. Potrebbero lavorare tutto il giorno e volere semplicemente qualcuno che gli risolve il problema della casa. Un altro problema è che spesso non possiamo dare soluzioni alle famiglie che hanno subìto sgombero. Possiamo resistere con loro fino a un certo punto, ma a volte non riusciamo a trovare un altro spazio. A volte, nonostante i tentativi che fai, ti vedono semplicemente come qualcuno che li aiuta, come un filantropo. È difficile trovare Italiani e creare relazioni di solidarietà con i migranti. A volte le differenze linguistiche e culturali sembrano insormontabili.

Il fare lavoro politico in un quartiere popolare significa che non devi credere al mito di pre -esistenti relazioni di solidarietà, ma che devi affrontare una sofferenza sociale, che può tradursi in una guerra tra poveri e nel tentativo di ingannare gli altri per sistemarti individualmente. Durante l’esperienza del comitato, ci è capitato di incontrare persone ambigue che hanno tentato di approfittare della fiducia che gli abbiamo mostrato. Ancora oggi ci sono problemi che partono da comportamenti macho e sessisti, i quali sono in relazione anche con le differenze culturali delle occupazioni. Malgrado ciò tutte queste contraddizioni possono essere superate solo con un dialogo duraturo e, soprattutto solo se sempre più occupazioni prendono l’organizzazione della lotta nelle loro mani.

L’occupazione delle case come bisogno sociale e come lotta sociale
Chiaramente il fatto che viviamo anche noi in case occupate nel quartiere è tanto un bisogno quanto una necessità, dal momento che volevamo vivere questa lotta in modo rivoluzionario. L’ultimo anno questa lotta si è diffusa a Milano con diverse forme, partendo dai quartieri. Così sono nati, tardivi ma duraturi, legami di solidarietà tra diversi comitati, fatto che ha avuto come risultato il creare un linguaggio comune riguardo ai mezzi della lotta, che non è l’ennesima costruzione politica di alcune organizzazioni politiche, ma è sorto da un reale dialogo sui problemi e le prospettive di una lotta che in Italia, e probabilmente sempre di più in Europa, nasconde un’ enorme dinamica rottura con l’attuale stato di cose.

Anche noi abitiamo in case occupate. Si tratta di un bisogno doppio. Primo, dato che non paghiamo un affitto, lavoriamo di meno e così dedichiamo più tempo alla lotta. Secondo perché in questo modo abbiamo a disposizione una rete di appartamenti che ci permette di ospitare altri compagni e altre compagne, e migranti, che incontriamo e conosciamo nelle lotte, come qui a Roma nel caso delle lotte contro i CIE (Centri di identificazione ed espulsione). È una rete che ci permette di organizzarci e dividerci cibo, strumenti, biciclette, automobili, qualsiasi cosa. Potremmo dire che la rete delle nostre case è qualcosa di palpabile, che ci permette di vivere momenti come davvero li vogliamo, in comune.

Non siamo sintonizzati con altre realtà occupate in modo ufficiale ma abbiamo relazioni forti con altri compagni che hanno deciso di vivere allo stesso modo. Ad esempio, abbiamo fatto alcune azioni di solidarietà e di aiuto economico per le spese legali di chi occupa case che non sono nostre ma con cui abbiamo forti relazioni, o ci incontriamo con gente che vuole occupare in un punto diverso della città. Abbiamo anche relazioni con realtà occupate in altre città, come Torino, Milano, Genova, Venezia e Firenze.

Quando qualcuno ci chiede aiuto, gli diciamo sempre di venire con i suoi amici o con la famiglia. Non vogliamo essere qualcosa di separato dalla gente del quartiere. Sai, gli anarchici vanno sempre contro tutto… Cerchiamo di organizzarci insieme alla gente del quartiere.

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