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06/12 cineforum immaginario – Her
Categories: General

Lei-Her

Her è un film del 2013 diretto da Spike Jonze, interpretato da Joaquin Phoenix e, solo per quanto riguarda la voce, da Scarlett Johansson, doppiata nella versione italiana da Micaela Ramazzotti.
Il film ha ottenuto il Golden Globe per la regia e l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.
La storia Her è ambientato in una Los Angeles futuristica, ma non troppo lontana, evidente riflesso della contemporaneità, in cui dispositivi di ogni genere rivestono un ruolo di primissimo piano nella vita delle persone (non che oggi sia poi così diverso). Qui Theodore Twombly (Joaquin Phoenix), uomo sensibile e introverso, da poco ha chiuso un legame che durava da anni con Catherine (Rooney Mara), lavora come scrittore di lettere altrui dettandole al computer: assai provato per la recente rottura, occasionalmente cerca compagnia in una chat vocale, dove persone sole possono eccitarsi e anche fare sesso a distanza. Finché non viene introdotto sul mercato un nuovo e sofisticato sistema operativo: Theodore fa così la conoscenza del suo OS Samantha, una voce femminile intelligente, empatica e con una personalità in continua evoluzione. I due instaurano un legame sempre più forte al punto che il loro rapporto arriva, prima solo ad assomigliare sempre di più ad una relazione amorosa, per poi diventarlo a tutti gli effetti.

Il film Her è senza ombra di dubbio un film originale, non certo il solito film di fantascienza; non ha le architetture fredde e minimal di tanti film di fantascienza recenti e non: il futuro secondo Jonze presenta scenografie essenziali ma serenamente calde, dominate da colori pastello e lievemente “abbrustolite”. Tra bianchi e spazi sgombri sono tante le tenui pennellate di colore, arancio in particolare. Una visione innovativa e tutt’altro che inquietante, nell’ambito di una ricerca estetica/filmica in continuo fermento (Jonze è considerato uno dei registi più originali di Hollywood, ha girato molti video clip di successo, come per esempio Praise you di Fat boy slim, ed è autore del film ormai cult: Being John Malkovic). L’avvenire e la tecnologia, di per sé, non sono per il regista statunitense elementi negativi o allarmanti. Anzi, l’originalità del film sta proprio nel mettere al centro la storia d’amore e l’esperienza sentimentale di Theodore sopra tutto il resto: Her è molto più un film romantico che un film di fantascienza. Indaga la differenza tra un’emozione “vera” e quella nata da un oggetto non umano che prova però desideri e paure, senza quindi rappresentare l’evoluzione tecnologica come qualcosa di disumano e mettendo in scena la storia di Theodore nell’ambito di una vicenda in cui la tecnologia “ha il medesimo peso sentimentale dell’uomo”. Attraverso la sua versione estrema della società in cui viviamo (sembra ambientato 10 anni da oggi), Her prospetta un’immagine positiva della tecnologia, che non ostacola l’emergere della personalità e della soggettività del protagonista (il finale pacificatore e consolatorio, soprattutto l’accorata lettera che il protagonista decide di scrivere all’ex moglie, ne costituiscono una forte testimonianza).
Tutto questo ad un primo livello di lettura del film, coerentemente con quello che per Umberto Eco è l’intentio autoris. Se dunque Jonze propone una visione rassicurante della tecnologia, una riflessione più attenta al senso non letterale del testo filmico di Her potrà cogliere percorsi del senso che si articolano sul solco di un discorso sul dispositivo tecnologico, sulla città cibernetica e sul rapporto uomo-dispositivo.
La città iper-tecnologica Sebbene per una scelta di Jonze stesso, volta a rendere il film il meno possibile collocabile storicamente, non si hanno molte scene in esterni (il film è girato quasi interamente a Los Angeles, tranne alcuni segmenti, prevalentemente esterni appunto, girate a Shangai, non a caso una delle città più tecnologiche esistenti), si percepisce che la futuristica Los Angeles del film é una città iper-tecnologica, cibernetica. Una città stracolma di dispositivi elettronici, in cui la sua dimensione prettamente cibernetica ha forgiato a proprio uso e consumo un modello umano svuotato della propria soggettività, attraversato costantemente da flussi di informazioni: “la cibernetica produce la propria umanità. Un’umanità trasparente, svuotata dagli stessi flussi che l’attraversano, elettrizzata dall’informazione, connessa al mondo mediante una quantità sempre crescente di dispositivi. Un’umanità inseparabile dal proprio ambiente tecnologico poiché da lei costituito e attraverso di lui guidata. Ormai è questo l’oggetto del governo: non più l’uomo o i suoi interessi, bensì il suo «ambiente sociale». Un ambiente il cui modello è la città intelligente. Intelligente perché, grazie ai suoi recettori, essa produce l’informazione il cui trattamento in tempo reale permette l’autogestione. E intelligente perché produce ed è prodotta da abitanti intelligenti” (Comitato invisibile, Ai nostri amici, Cap.5, p.75).
Il testo del Comitato invisibile coglie questo modello di città nel suo passaggio da città ultra controllata, orwelliana si può definire, con una massiccia presenza di dispositivi di ordine e controllo fedeli al modello teorizzato da Foucault in Sorvegliare e punire (in proposito consiglio la visione di Lost Highway (1998) di David Lynch, film paradigmatico nel suo mettere in scena un modello di città definibile “panottica”) e così facendo dà una descrizione assai calzante del modello di città messo in mostra nel film di Jonze: “La visione più pietrificante e realistica della metropoli a venire […] è invece quella che si è sviluppata a priori «contro» questa visione orwelliana della città: delle «smart cities» co-prodotte dai loro stessi abitanti (o comunque dai più connessi tra loro). Un altro professore del MIT in viaggio in Catalogna si compiace di vedere la sua capitale divenire poco a poco una «fab city»: «Seduto nel pieno centro di Barcellona, vedo che si sta inventando una nuova città, nella quale chiunque potrà avere accesso agli strumenti tramite i quali essa diviene completamente autonoma». I cittadini, dunque, non sono più dei subalterni, ma degli smart people; «dei ricettori e generatori di idee, servizi e soluzioni», come dice uno di loro. In questa visione la metropoli non diventa smart grazie alla decisione e all’azione di un governo centrale, ma emerge
come un «ordine spontaneo», quando i suoi abitanti «trovano dei nuovi strumenti per fabbricare, collegare e dare senso ai propri dati» (Comitato invisibile, Ai nostri amici. p. 75-76)
Theodore/Samantha Il personaggio di Theodere Twombly, e tutto ciò che va a costituire la sua esistenza, appaiono paradigmatici in questo senso. In crisi esistenziale per la separazione con la moglie, è alla disperata ricerca di un legame che gli permetta di disinteressarsi dell’ex e di tutto il bagaglio di ricordi e rimorsi che lo ossessionano. Anche il suo lavoro è abbastanza indicativo: scrive lettere d’amore per conto terzi, o meglio, le detta al suo computer. Gli unici svaghi, una volta rientrato dal lavoro nel suo appartamento, sono videogiochi e una chat notturna per anime solitarie. Un’esistenza esemplificabile in due parole: finzione e fantasmi del passato. L’ingresso nella storia dell’OS Samantha introduce la tematica ampiamente presente nel cinema fantascientifico moderno e contemporaneo: quelle del cyborg e dell’intelligenza artificiale. Vivian Sobchack, in un suo saggio sul cinema di fantascienza (Vivian Sobchack, Spazio e tempo nel cinema di fantascienza. Filosofia di un genere hollywoodiano, Bononia University press, 2002) pone l’accento su alcuni aspetti che riguardano da vicino tale argomento. Da un lato la contemporaneità vede il verificarsi dell’idealizzazione del corpo umano come “macchina efficiente” in una società ossessionata dalla forma fisica con “sensualità culturale fondata sulla produzione corporea come produzione di corpi, e appare un erotismo androgino nel sudore, nell’allenamento e nell’idea di routine”(Vivian Sobchack, Spazio e tempo nel cinema di fantascienza., cit., p.232). E del resto l’uso ormai diffuso di trapianti sta «teorizzando noi stessi come cyborg» (J-L. Nancy sostiene che l’idea stessa del trapianto di organi, del fatto che la sopravvivenza di un corpo sia affidata ad elementi “stranieri” mette in crisi l’idea stessa di “io” e di “soggettività”. In proposito vedi: Jean-Luc Nancy, L’intruso, Napoli, Cronopio, 2006). Dall’altro, se «l’epoca della riproducibilità tecnica» teorizzata da Benjamin ha minato lo status di unicità del prodotto artistico, nell’epoca della tecnica moderna teorizzata da Heidegger, che è qui anche età della riproducibilità e replica elettronica, ad essere messo in discussione dalla trasformazione tecnologica è l’essere umano stesso. Gli androidi protagonisti di molti film fantascientifici appaiono alla ricerca di una realizzazione emotiva, oltre che strumentale; e allora Samantha, al pari dei replicanti di Blade Runner (Ridley Scott, 1982), del calcolatore di 2001:A space odissey (Stanley Kubrick, 1968) come D3BO, l’androide dorato della saga di George Lucas, Star Wars, manifestano dubbi, provano desideri, si sentono smarriti e vivono contraddizioni esistenziali ben oltre i protagonisti umani. Sono «più umani degli umani». In particolare il film di Scott, secondo Sobchack, metterebbe in scena attraverso i replicanti, un desiderio di vita talmente forte e talmente cosciente da costituire «sfida così eloquente e feroce all’umanità». Sono concetti che trovano una corrispondenza in alcuni scritti di Heidegger; in un studio sul concetto aristotelico di physis (φΰσις) risalente al 1939, scrive: «Talvolta sembra che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta: che l’uomo produca tecnicamente sé stesso. Se ciò riuscirà l’uomo avrà fatto saltare in aria sé stesso, cioè la sua essenza come soggettività, e l’avrà fatta saltare in quell’aria dove l’assoluta assenza di senso vale come unico «senso», e dove il mantenimento di questo valore appare come il «dominio» umano sul globo terrestre» (Martin Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φΰσις (Aristotele, Fisica, B,1), in id. Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1987, p. 211)
La cibernetica crea un essere umano privo di ogni traccia della propria interiorità, un selfless self, un quantified self, perfettamente in grado solo di misurare e controllare ogni gesto, ogni passione, ogni legame. È un io che cerca sempre ogni soluzione al suo esterno, mai all’interno. Più cyborg del cyborg. E in effetti l’accusa principale che Cathrine (l’ex moglie) muove a Theodore è di non essere in grado di sostenere e gestire emozioni reali, le proprie e quelle di chi gli sta accanto. Appare chiaro dunque che Theodore soffre di questa sua incapacità, che è anche impossibilità di stringere veri legami. La sua scelta di legarsi ad un dispositivo esprime, anche se in maniera iperbolica, ciò che secondo Agamben sta alla base del proliferare e del successo dei dispositivi tecnologici, un fin troppo umano desiderio di felicità: «Alla radice di ogni dispositivo sta dunque un fin troppo umano desiderio di felicità e la cattura e la soggettivazione di questo desiderio in una sfera separata costituisce la potenza specifica del dispositivo» (Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Roma, Nottetempo, 2006, p.26). Per riassumere, l’universo della cibernetica crea un’io assolutamente diviso tra svotamento della propria interiorità e ricerca della felicità. Il finale del film, più dolce che amaro, vede un Theodore assolutamente pacificato e rasserenato: l’uomo, dapprima sconsolato per essere stato abbandonato dal proprio sistema operativo, appare poi cambiato dall’esperienza. Scrive una lettera a Catherine, scusandosi per quei suoi atteggiamenti che li hanno fatti allontanare e spiegandole che tiene ancora a lei, pur accettando il fatto che hanno preso strade diverse. Il film si conclude con Theodore e l’amica Amy che si siedono sul tetto del grattacielo in cui vivono e osservano serenamente le luci della metropoli.

Filmografia

-2001:A space odissey (Stanley Kubrick, 1968)

-Blade Runner (Ridley Scott, 1982)

-Strange days (Kathryne Bigelow, 1995)

-Lost highway (David Lynch, 1997)

-Live Free or Die Hard (Len Wiseman, 2007)

Bibliografia

– Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Roma, Nottetempo, 2006

-Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966

-Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, Venezia, Marsilio, 2014

-Comitato invisibile, Ai nostri amici, Cap.5: Fuck off Google

– Michel Foucalt, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976 Martin

– Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φΰσις (Aristotele, Fisica, B,1), in id. Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi

– Jean-Luc Nancy, L’intruso, Napoli, Cronopio, 2006

– Vivian Sobchack, Spazio e tempo nel cinema di fantascienza. Filosofia di un genere hollywoodiano, Bononia University press, 2002

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